la fine del confine(della mente)/the end of the border(of the mind) – prime due tappe dolomitiche
la sera del 5 marzo, alle 18.30, il primo primo raggio di La Fine del Confine, performance d’arte pubblica itinerante di stefano cagol, prodotta da dolomiti contemporanee e da pikene pa broen barents art triennale, è stato lanciato oltre la diga del vajont, che si trova poco sotto al nuovo spazio di casso.
la sera del 6, il secondo raggio ha attraversato neve, nebbie, cielo, a cortina d’ampezzo, cercando la tofana di rozes.
il nuovo spazio di casso è stato affidato pochi mesi fa a dolomiti contemporanee, che, a 50 anni dalla sua chiusura, l’ha riaperto. Stiamo lavorando per trasformarlo in un motore (non museo) artistico e culturale, che sappia produrre nuove immagini per/da questi luoghi, per/da questa montagna. Al tempo stesso, esso viene configurandosi come una piattaforma di scambio, capace di attivare partnership con altri progetti e spazi in italia e all’estero.
la diga del vajont è quell’oggetto che sappiamo: muto, immobile, impenetrabile. martedì sera il raggio di luce l’ha scavalcato. ha scavalcato la chiusura simbolica di questo altissimo muro di cemento, indifferente a tutto. (il 9 ottobre 1963, la diga resse il colpo, a differenza di tutto il resto: della montagna che cedette, dei paesi che furono cancellati, della stessa scuola di casso, ora nuovo spazio di casso, che venne danneggiata e chiusa, e dell’uomo, che subì tutto ciò; la diga è lì oggi, come 50 anni fa). essa non è un’opera idraulica fossile: è una diga culturale, il baluardo di un’inerzia avvaincente, che pare insuperabile: è necessario modificare l’immagine culturale di questo luogo: noi crediamo che l’arte possa dare un contributo reale in questo senso. i raggi non sono giochi d’artificio. Sono idee concrete.
La performance di cagol non è stata una performance illuminotecnica, ma un evento che ha spostato, anche solo di un millimetro, l’immagine culturale di questo monumento, la sua codifica immobile. una nuova immagine nella retina, per chi ha visto (oltre 100.000 persone solo sulla piattaforma mediatica generata). non si pretende certo, con ciò, di aver modificato la storia. Siamo estremamente consapevoli del luogo in cui ci troviamo. ma un’immagine nuova, forte, è venuta a sovrappossi a quella che stagnava, invariata, da dieci lustri. la luce è venuta. Un primo moto.
il fascio di luce non è stato indirizzato su di un punto preciso: importante era andare oltre quel coronamento, il fuoco è stato messo all’infinito, oltre la diga, e anche oltre longarone.
il furgone (gruppo sina), con a bordo il faro e il sistema di alimentazione (CMI sedico), è stato posizionato un centinaio di metri a monte della diga. attorno
alle ore 18.00, una ventina tra reporter, troupe, fotografi, erano lì, ad attendere l’accensione, accanto alle persone, a molti tra i sindaci dei comuni dell’area.
stessa scena in basso, sotto alla diga, a longarone, dove molti hanno osservato, chi favorevole, chi incuriosito, chi scettico, chi contrario.
alcuni droni (velivoli muniti di telecamera), messi a disposizione da aca communication, hanno integrato la copertura video dell’evento, prospettiva aerea, il raggio dall’alto.
il raggio è sgorgato, ed ha colpito, con forza fluida, attraversando e superando. Una luce potente, ma silenziosa. l’impatto di un’opera d’arte pubblica in un luogo ultrasensibile, l’impatto di un’immagine che non c’era, che non c’è mai stata, ed ora c’è. ma quest’immagine, pur così forte, era leggera, scia luminosa sospesa nell’aria, nessun rumore, immagine accesa ma salda, nessuna corsa, nessun grido, un ponte.
Ben visibile anche dal nuovo spazio di casso, dalla passerella che si slancia sul monte toc. questo è importante. questa è l’origine, chiariamo: noi non siamo venuti a lavorare qui perchè qui c’è la diga, che è già stata sufficientemente cannibalizzata in questi anni. siamo venuti perchè c’era questo spazio privo di destinazione, privo d’un idea attivatrice, uno spazio fermo e chiuso che abbiamo trasformato nel nuovo spazio espositivo di casso, proponendone un nostro progetto d’uso. in realtà, siamo qui perchè non riteniamo giusto che qui ci sia solo la diga (ovvero solo l’aura della morte). e intendiamo proporre idee e immagini altre. se la diga è una chiusura, siamo qui perchè non ci piace la chiusura (e quindi, non piaceremo a chi è chiuso, per scelta, o per una sofferta coazione, meccanismo automatico, fisiologico, d’autodifesa, che comprendiamo, e che non condividiamo), non ci piace l’inerzia, i muri impenetrabili, i muri non scalabili. se ogni anno 200.000 persone vengono qui, e vengono esclusivamente per vedere la diga, o si decide che questo va bene, e che questo luogo è destinato per sempre a rappresentare la traccia fossile di un evento tragico, oppure si decide invece che questo non va bene, e che a queste 200.00 persone bisogna dire e mostrare anche altre cose. Ecco perchè un primo raggio. se l’immagine prevalente in questo luogo è ancora quella della morte, bisogna mostrare delle intenzionalità di vita, delle prospettive ulteriori. bisogna riequilibrare. bisogna bonificare culturalmente. bisogna opporsi alla paralisi e all’immobilità e ad un turismo che contempla i segni della morte. bisogna farlo perchè questo luogo, come ogni luogo, ha il diritto di vivere, non l’obbligo di continuare ad essere un memoriale sospeso.
ovunque ci sono dighe, questa non è l’unica.
ovunque ci siano dighe, è sensato, forse necessario, andare. ci si va per opporsi alla logica dell’inazione. il processo artistico è un’urgenza progettuale. processo e progetto sono impellenze critiche, non pratiche decorative. si vuole pensare, fare, e dire, e attraverso ciò, rifiutarsi di assoggettarsi acriticamente a ciò che già c’è. perchè spesso ciò che c’è non va bene, spesso c’è l’abitudine, l’immobilità, lo stereotipo, l’assenza d’intenzionalità e ideatività, la pigrizia. Ideare, in simili contesti, non vuol dire propugnare se stessi, portare i progetti personali su di una ribalta. Qui nulla è personale, e tutto è pubblico, nella dimensione a cui lavoriamo noi, una dimensione pubblica appunto. sempre noi lavoriamo sul territorio, sulle specificità, fisiche, culturali, antropologiche, di un territorio. per analizzarne, metterne in luce aspetti, attitudini, valore. attraverso un linguaggio che non è descrittivo, e delle pratiche che non sono compilative. progettando e figurando.
le immagini sono idee. le idee sono la plastica. senza la plastica delle idee, l’uomo si dissecca, e i luoghi diventano muti sepolcri (disabitati).
Giorno successivo, la sera del 6, cortina d’ampezzo, ore 18.30, secondo raggio.
nevicava, c’era molta nebbia: la Tofana non si vedeva, il raggio bucava lo spazio bianco, e a un certo punto vi si perdeva, la nebbia e i fiocchi lo assorbivano e lo espandevano nelle rifrazioni e il raggio, penetrando con difficoltà nel quasi-muro, si raccorciava e gonfiava, prendeva un corpo massivo, non era più solo una lunghezza, ma anche una forma espansa, diventava massa, una massa quasi globulare, e per due ore la neve ha attraversato il fascio, giocandovi sopra, e il fascio spanciato non era fisso, come la sera prima, ma mosso e dinamizzato dalla precipitazione continua nel ritmo costante-cangiante della caduta. Eppure, dietro, la Tofana c’era, intatta, come intatta era ed è rimasta l’IDEA della linea luminosa, del travalicamento, degli sconfinamenti.
Ora Stefano Cagol è al nord; dopo le prime due tappe-origine dolomitiche, “progettate” da Dolomiti Contemporanee, il ritmo è cambiato, il viaggio stesso è diventato il raggio, traiettoria meridiana boreale, raggio al circolo. le tappe iniziali hanno sviluppato pienamente il potenziale di senso dell’evento. Ora il furgone macina e va. tappe più istintive, l’Europa attravesata fluidamente, lo spazio, e il tempo dilatati, dc viaggia con lui, in avanti, e in su, verso l’alto.