i bareloi – zoppè di cadore – 20.12 2014-30.01 2015
i bareloi
di mario tomè
museo etnografico “al pojat” di zoppé di cadore
prima tappa del progetto chiavi di accesso
inaugurazione 20 dicembre 2014, ore 11.00
Mario Tomè (Agordo, 1980), coltiva da anni, come artista e come uomo, il rapporto con il proprio territorio, il territorio dolomitico. Non vi è distanza per lui, ma coincidenza, tra l’essere un abitatore di questi luoghi, e l’essere artista: la sua sensibilità lo porta a mettere in gioco il senso di ciò che fa e conosce, nell’esperienza della propria vita.
A partire dal 2009, si è occupato a più riprese, attraverso una serie di lavori significativi, di aspetti diversi propri della cultura della montagna, esplorando in particolare temi legati all’alpinismo e all’arrampicata, al bivacco, al rapporto dell’uomo con quest’ambiente.
Lavora prevalentemente con fotografia, video, installazione.
A partire dalla scorsa primavera, Tomè ha vissuto a Piar, nel Comune di La Valle Agordina. Qui, immerso nel bosco, ha lavorato alla ristrutturazione della scofa, il vecchio fienile di famiglia, costruito nel 1827 dal bisnonno, al nane Barelon.
Barelon è il soprannome dato in valle al casato paterno.
La scofa, inutilizzata da anni, era ormai a pezzi. Andava salvata. Dapprima, egli ha demolito il vecchio volume. Poi, dopo essersi procurato i materiali lignei, ha ricostruito da zero, utilizzando il sistema costruttivo tradizionale. Per alcuni mesi, la scofa è divenuta il cantiere-bivacco dell’artista-carpentiere, che spesso l’ha abitato, sacco a pelo e torcia frontale. La scofa è ora di nuovo in piedi: dalla prossima estate, essa ospitarà degli artisti in Residenza, che verranno, anch’essi, a vivere e indagare quest’ambiente.
Quando Tomè è stato invitato a pensare ad una mostra per il Museo etnografico di Zoppè, l’idea è stata, da subito, quella di portare la scofa nel pojat, mettendo in relazione diretta questi due elementi, e i loro territori.
Durante l’estate, egli ha percorso a piedi i trenta chilometri che separano Piar da Zoppè. Ed attraversare fisicamente questo spazio, le tre regioni (agordino, zoldano, cadorino), significa collegarle. Perchè esse, per quanto differenti, sono parte dello stesso territorio, del quale l’artista voleva quindi fornire un’immagine unitaria. La montagna è una.
Rifare la scofa, significa abitare il territorio, conoscerne gli usi e le pratiche, i nomi dei luoghi, gli attrezzi da lavoro: e rifiutare l’estinzione di memoria e tradizione.
Dice Tomè: “Ci siamo spinti troppo oltre nella nostra corsa al progresso. Ci siamo sbarazzati del passato come se fosse un’eredità ingombrante ed inerte, mentre il passato è un lento percorso di accumulazione di saggezza e conoscenza, che oggi ci rendiamo conto di dover recuperare perché quella traiettoria inarrestabile mostra tutte le sue falle”.
Tomè ha trovato i vecchi chiodi, nelle teche del Pojat di Zoppè. Altri chiodi ha trovato mentre demoliva la scofa: questi chiodi presi a Piar, sono ora nel Museo. Su di essi, sono state punzonate alcune frasi, che raccontano delle storie, storie degli uomini di queste terre. “Sono parole non più in uso, modi di dire perduti dei dialetti dell’Agordino, della zona di Zoldano e del Cadorino, ossia i territori che ho percorso a piedi dal fienile a Zoppè di Cadore, sede della mostra. Mi piacerebbe che il mio lavoro servisse a rimettere in circolo questo vocabolario perduto. Ho pensato ai chiodi come supporti ideali perché essi saldano, tengono assieme le cose. Ciò che vorrei accadesse tra il presente e il passato: un rinsaldarsi di un vincolo sacro e necessario tra ciò che siamo stati e ciò che siamo”.
I chiodi sono assemblati, insieme ai legni di Piar, a creare una struttura nuova, fatta con le cose vecchie: perchè la tradizione va rinnovata, sempre, per non essere perduta. L’Addio alle Baite di Zas Fris è uno dei testi centrali, insieme con i vocabolari dialettali dell’area, usati da Tomè in questo lavoro.
Una foto del nane Barolon sta appesa accanto all’installazione dei chiodi e dei legni. Il nonno, il costruttore della scofa, è armato di una falce. In qualche modo, egli sembra dichiarare di essere pronto alla difesa del proprio mondo. Che la difesa fondamentale della tradizione, può necessitare, nei casi gravi, della rivoluzione. La cote è pronta per la lama.
All’interno della struttura del Pojat, viene proiettata una serie di diapositive: sono scatti presi dall’artista, mentre demoliva e ricostruiva, mentre attraversava i boschi sulla via per Zoppè. I primi due scatti risalgono al 1986: in essi Tomè, all’età di sei anni, occhieggia dalla scofa di Piar, già ci guarda. Mettere queste immagini dentro al Pojat, vuole dire, ancora una volta, mettere in relazione l’esperienza personale di Tomè con l’elemento caratterizzante di questo Museo: guardare ai singoli luoghi come alla casa dell’uomo: è la terra, la casa dell’uomo.
All’esterno del Museo, un altro oggetto è poggiato alla fontana di pietra. Una canala lignea, sagomata a Piar, convoglia parte dell’acqua all’esterno. Il percorso dell’acqua sarà ripreso in estate, ancora, per fluire nella terra, unendola.
Gianluca D’Incà Levis, dicembre 2014
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