30 giugno – opening Brain-tooling – forte di monte ricco
Brain-tooling
Forte di Monte Ricco (Pieve di Cadore, Bl) – 30 giugno/30 settembre 2018
opening: sabato 30 giugno, ore 18.00
a cura di: Gianluca D’Incà Levis, Riccardo Caldura, Petra Cason
artisti: Marta Allegri, Michele Bazzana, Andrea Bianconi, Michele Bubacco, T-Yong Chung, Irene Coppola, Ilaria Cuccagna, Fabiano De Martin Topranin, Barbara De Vivi, Hannes Egger, Chiara Enzo, Enej Gala, Andrea Grotto, Evelyn Leveghi, Stefano Moras, Marta Naturale, Penzo e Fiore, Nazzarena Poli Maramotti, Marta Spagnoli, Cristina Treppo, Caterina Erica Shanta, Luka Sirok, Francesco Zanatta, Christian Maunuel Zanon.
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Brain-tooling è il titolo della mostra collettiva con cui Dolomiti Contemporanee attrezza il Forte di Monte Ricco -snudandone le crepe, son(d)andone anfratti e nicchie- per l’estate 2018.
Dando così seguito a Fuocoapaesaggio, primo moto propagatorio, che nell’estate del 2017 ha mutato il verso (cangiare) a questa pietra della storia (rimuovere la patina della storia dalla pietra, tenderne il moto), che da cent’anni stava, immota e aperta ai venti, alta su Pieve di Cadore, che è il paese natale di Tiziano Vecellio, che è uno dei pezzi imprescindibili di questo paesaggio cadorino, che da sempre si epande ovunque, come qui s’allunga l’ombra delle montagne alte a sera, spingendosi lontano, lontano, lontano.
E infatti vedremo poi come, in questa costruzione di un piano mobile delle prese entrencefaliche, trovi il proprio autonomo spazio Tiziano contemporaneo, altro programma vasto, che ora si profila, aperto sulla linea lunga dell’orizzonte: ma di questo diremo dopo, che Brain-tooling e Tiziano Contemporaneo sono due cratoni, coesistenti e bene autonomi, seminati negli spazi del paesaggio.
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Il Forte di Monte Ricco è gestito da Fondazione Centro Studi Tiziano e Cadore e Fondazione Museo dell’Occhiale onlus, che operano con il fondamentale sostegno di Fondazione Cariverona.
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[“Come” arrivare: al Forte di Monte Ricco si giunge camminando per breve salita, un viale all’ombria dei faggi secolari venuti d’altrove, che nutre l’aderenza del cervello (non sempre, non qui, un’adesione patologica: anche se, anche a questo proposito, dovremmo interrogarci in modo più accurato: sempre interessano, infatti, i meccanismi di dis-funzionamento, le passioni – scientifiche, inevitabilmente patologiche – Recamier, Binswanger, Jaspers; i pensamenti maniacali, le fissazioni, gli schizogrammi, e perfino i cozzi neurali delle emorragie intracerebrali, che ritmano la danza celeste della ricerca proiettata al suolo).
Si raggiunge così, dicevamo, per l’ombria dei faggi, il vertice piano dell’altura, trincerato glabro nel sole, e, dal suo tetto-giardino, tra gli sfasci delle zattere di guerra, lo sguardo spazia e rampa all’attorno: le Marmarole, Pozzale, il Pelmo e l’Antelao, canalini verticali e versanti ammantati, boscoscuro saturo ultraresinoso: a breve distanza, il Forte gemello di Batteria Castello, che fu la tana fertile di Romano Tabacchi, e che ora è cava e cantiere d’artisti].
Portare lontano un cerchio di frusta in onda, ecco la propagazione: funziona sempre, laddove il lago non sia ghiacciato fossile: espande e fa strada. Ma bisogna conoscere l’acque, prima di alzare il braccio, calcolare pesi e distanze, prima di risolversi a gettare il sasso – non si tratta di immergere pietre in uno specchio cristallino, per osservarle poi da sopra, trepidando, emotivamente, ad ogni lieve increspatura prodotta dai tarsi medi dei gerridi scivolatori, persi nella meraviglia dello specchio naturale. Lo specchio non è naturale. Il riflesso va coltivato, smerigliato.
La natura s’è trasformata nell’uomo: deve sostenere Novalis.
L’uomo quindi, anche senza smontare dal prato, taglia un gradino nella roccia col coltello (lo blocca), e compie un salto proprio, modificando arbitrariamente la natura, sé stesso e la taglia dei propri slanci: ecco, può dire anche questo, l’uomo, senza per ciò venire a radicalizzarsi e irritarsi nei mettrieniani rotolamenti meccanicistici, e cercando invece il punto della naturale artificialità che è propria dei suoi costrutti consapevoli antagonisti.
Brain-tooling: è il cervello il principale strumento di progressione. D’ogni progressione.
Il cervello è lo strumento: ma è anche la prima parete.
Il cervello, in realtà, è già la progressione stessa.
Spesso, parlando delle difficoltà e delle paure connesse all’arrampicata, il climber si ripete questa banale verità: it’s all in your mind.
Ma l’uomo non sale perchè il suo gas è leggero: sale nonostante il peso, quando si determina a cercare.
Cercare, salire: non sono due istinti naturali ancestrali, questi, non sono riflessi endocrini, e invece due determinazioni presenti: radicali, maniacali, intellettuali (quando lo sono), metalliche.
Alle volte infatti, si ha l’illusione di una ricerca, quando invece non c’è che la pompa del surrene.
Nella progressione (cercare, avanzare, salire), l’uomo ha bisogno di tecniche, e di strumenti, e di un’attrezzatura perfezionata, nell’ingegno, dalle macchine.
Notiamo a questo punto come l’apprendere una tecnica non equivalga assolutamente a sviluppare un’esperienza, ma a dotarsi dello strumento di progressione ideale (che è al tempo stesso concreto, formale).
E il cervello non è un arnese-utensile: è il centro della produzione dell’aderenza (se lo è).
L’aderenza non è altro che un’attenzione massima concentrata, che impedisce alle superfici di scivolare e scorrere su sé stesse, dissipando potenziale: dissipando.
C’è un facile, odioso e banal pregiudizio, legato ad un’idea eunuca e pretenziosa di salita alpinistica (o di ricerca il senso lato), di automatismo rampicatorio (o culturale): che il salire sia appunto semplicemente un istinto, sorta di attitudine naturale, da cui il dono infausto della mistica approssimativa dello scalatore-intimo-filosofo-azionista-della-natura, che è una boria travestita d’intima umiltà muscolare.
E invece, ogni impulso costruttivo (salire è misurare il cateto tettonico: sulla placca occorre la massima precisione d’appiglio e d’appoggio), è figlio di un’idea, che è pesante: non una convezione, da cui si possa trarre una stentorea epica dello slancio nel Sehnsucht.
A cui opponiamo -ecco che arriva- il riflesso metallico dei chiodi e del martello, delle picche e dei ramponi (ma anche della scrittura di Bernhard, che è un altro solco sulla pietra), i ferri fusi e saldati, la cui superficie d’aggrappo alla roccia è piccola, minima, quanto piccola è la presa salda, rigorosa.
E’ un punto preciso, questo della presa in punta di picca: rigoroso, lo spazio dell’aggrappo.
Ed è in questo spazio minimo del contatto che l’aleatorietà della relazione di ricerca e trazione (contatto) viene fatta coincidere con la massima precisione e con la più salda e univoca delle tenute. Un poco come nei circoli sinaptici, minimo spazio, o cavità neurale prespaziale, per presa massima e rilancio della frusta elettrica, che attrezza il corpo.
La stessa montagna, è un solido, che non ruota. Come le pietre: che non rotolano, stanno. Non in ieratica eterna positura. Concentrate, silenziose, ad aspettare.
Non una scena predisposta: un’attenzione gigantesca invece, che ne richiama e muove delle altre.
C’è dunque, sempre, chi risponde al richiamo, portando altra attenzione, tensione, cura, proiezione.
Questa idea dell’aderenza del cervello dunque, Brain-tooling.
Siamo partiti, per fare questo concetto, da una tecnica particolare, quella del Dry-tooling. Attraverso la quale -per spiegare- dotati dell’attrezzatura da arrampicata su ghiaccio (piccozze e ramponi), si procede sulla roccia viva (se è viva: è viva -ribadiamolo- se la facciamo viva, attraverso l’uso della critica – che è una progressione. Con ciò si intende dire -senza temere il precipizio solipsistico, dato che stiamo, molto desti, l’istinto teso sulla lama, sul crinale della ragione- che mai alcuna roccia preesiste all’uomo – parolaprima).
Si procede sulla roccia fatta-viva e dalla prima parete interna (forandola) verso l’esterno, con l’acciaio, per allenare il misto, per allenare la testa e gli arti e la resistenza, per comprendere meglio la precisione e l’accuratezza nell’applicazione delle forze, che si manifestano secondo regole e bilanci, per calcoli e scienza, misurazione dello slancio – che apre tutto.
In questo modo, non si tocca mai la roccia con mani, dita, corpo. Si rinuncia, finalmente, a quell’apologia sconsiderata della coesistenza organica, tra uomo-natura e natura-natura, per far qualcosa di acuminato, che prevede l’applicazione (in luogo dei pregiudizi estetici) di strumenti tecnici: d’artifizio. Senza raccontarsi più quindi, boriosi, libidinosi, approssimativi, che si può far da soli.
Fare da soli non si può.
La punta della picca è la relazione necessaria con lo spazio, che, a monte del viaggio, rimane alieno, quindi inconoscibile (non interrogabile).
La si pone attraverso un sforzo consapevole, questa relazione, che non è uno slancio speranzoso (non si spera di non cadere: ci si sa orientare, e si calcolano forze e distanze e solidità e fragilità: quindi si infigge una protezione, che guida la progressione).
Ed ecco, questo è precisamente ciò che da sempre definiamo come l’attitudine prima di cultura ed arte. Mentre andiamo considerando lo spazio come il senso delle cose e delle relazioni possibili tra gli enti, che vanno sciolte per radicalità ortogonali, senza con ciò dar l’acido all’anima, senza farsi mera valvola. Qui si parla, da sempre, di alpinismo culturale, e quest’espressione non è un pleonasmo, perchè vede la giustapposizone di due concetti antagonisti, rispetto alle accezioni critiche di cui li abbiamo informati -nessun concetto o parola, idea o pratica, possono esistere davvero se non in accezione particolare: non esistono i format: esistono le azioni, che, quando non sono il riflesso elettrico d’una coda staccata, coincidono, inevitabilmente, con il pensiero.
Nella fissazione, non c’è un chiodo infisso nel cervello.
Il chiodo è il cervello.
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La mostra Brain-tooling e le iniziative correlate si realizzano grazie al sostegno di Fondazione Cariverona, al progetto europeo Interreg Italia-Austria V A 2014-2020 STREAM – Sostenere il Turismo sostenibile, la Rigenerazione urbana e la promozione delle Arti in aree Montane, e alla rete di partner di Dolomiti Contemporanee.
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Info:
Orari di mostra:
Nei mesi di luglio e agosto, aperto tutti i giorni in orario 10.00-13.00 e 15.30-18.30.
Nel mese di settembre aperto dal martedì alla domenica, in orario 10.00-13.00 e 15.30-18.30.
Nel mese di ottobre aperto solo sabato e domenica, in orario 10.00-13.00 e 15.00-18.00.
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