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dolomiti contemporanee e il vajont
Idea e difesa di un progetto culturale che rifiuta il principio d’inerzia.
Con Giambattista Tiepolo (Immagine). La Nobiltà e la Virtù vincono l’Ignoranza. 1744/45 – 2012/…
dc giungendo a casso, a riaprire lo spazio (anche in senso generale, diciamo filosofico), diverse cose sono accadute. un luogo difficile, certo. ora c’è questo cantiere in atto. culturale, prima ancora che artistico. d’architettura culturale (scheletro portante). un’istanza di rilancio e apertura. un esperimento, anche umano, sociale, antropologico. da cui, molte condivisioni. alcuni scetticismi (diversi dei quali già caduti, altri no). molte ulteriori aperture -portato fertile, sedimento reattivo-, e alcune dighe. sin da subito, abbiamo detto, chiaramente, cos’era il nostro, agguerrito, strutturato, intelligente, ponderato (ed istintivo; anzi: pulsivo), progetto, o costrutto (anche se, per quanto riguarda dc, parlar di progetto -sta parola abusata- è poco sensato. la pratica di dc, dovremmo dirla così, sinteticamente: esserci e spingere. ancora meglio: esserci, scegliere, spingere). di questa modalità nostra del venire nello spazio del vajont, per contribuire a rinnovarlo, discutere è bene. ne discutiamo quotidianamente. così facendo, alcuni atteggiamenti (reattivi? reazionarti) si manifestano per quel che sono: gretti, dunque inaccettabili. i tipi che chiudono in modo aprioristico, acritico, appunto senza voler in alcun modo valutare, discutere, confrontarsi, e invece insultano, o diffamano. alcuni di costoro, approssimativi e territoriali (inetti e gelosi) ci hanno accusati addirittura d’essere dei cannibali, gli ennesimi, venuti a banchettare sul corpo del vajont; ci hanno detto, testualmente (Matteo Corona, 2012, lo scrisse su FB, poi cancellò: deciso, coraggioso), che le nostre iniziative sarebbero delle “cagate parassite, mascherate da opere d’arte” che la nostra è una “operazione macabra”, e che “lo sfruttamento della tragedia non è mai finito”, e che “come allora c’erano la sade e l’enel”, oggi ci siamo noi, a praticare lo “sciacallaggio mediatico”. associando in tal modo esso basso soggetto, la nostra azione, che ha un valore pubblico, a quella di chi è considerato responsabile diretto della morte del ’63; e che comunque, sempre sosteneva questo piccolo sapiente nsipiente, non competerebbe a noi, il ricordare, in quanto noi “non abbiamo vissuto” direttamente quella storia; eccetera; accuse pesantissime in queste ciarlette, no? incomprensibile astio, questo? no? tutto ampiamante previsto. da lasciar senza parole, no? appunto: no. qualcuno dunque ci vuol tenere fuori, e dice che noi non abbiamo vissuto; mentre noi abbiamo vissuto eccome, più di alcuni di loro certo, che però son disinformati, non sanno, e quindi parlano a vanvera; qualcuno ha aggiunto, lo scorso marzo, riferendosi a la fine del confine, che stefano cagol sarebbe un tipo che fa senso; che dc è situazionismo (cristo che ignoranza culturale: un progetto strutturato come questo, confuso con il situazionismo: parole in libertà; la libertà dello spirito qualunque, che si fa timoroso baluardo traballante di una chiusura rozza, scambiata per identità – l’assenza mascherata da presenza. d’altro canto, di cabarettisti mascherati in zona ce n’è altri, mica lontano, mica lontano). e dunque: questo genere di persone, riteniamo, sintetizza in modo esemplare l’atteggiamento-a-diga di alcuni -alcuni- degli abitanti di questi luoghi, che non sanno o possono accettar nulla che venga da fuori, nulla di nuovo, che sia stupido o intelligente, nulla di aperto, nulla che sia altro. è casa loro questa, pensano. chi vien dall’esterno, va respinto. vecchia storia, e il vento fa il suo giro. se non ci sono argomenti, ci si prova con le aggresssioni fuori luogo, quelle che abbiamo detto sopra, è proprio degli infertili scossi (non vicinarti al loro orticello, perdio: li allarmi, li turbi). rispondiamo ad alcuni di questi nostri aggressori dunque, rari ma virulenti, non solamente, è chiaro, per confrontarci con loro, dato che essi, coi loro attacchi diffamanti dappoco, dimostrano di non essere interessati ad alcuno scambio (e inoltre: se il valore di un guerriero si musura dalla potenza dei suoi avversari, sembreremmo ben poca cosa, in questo cimento. invece noi non siamo poca cosa). risppndiamo dunque a loro grattandoci il naso, ma seriamente invece, profittiamo di quest’occasione per parlare e spiegare a chi altro l’avesse a pensare in questo modo, in tutto o in parte. ecco dunque, qui di seguito, la nostra replica di allora (2012). le repliche servono a intavolare (non sulle bachecuzze smunte delle persone incerte, di chi dice e poi si nasconde). tutto è cantiere e confronto. tranne le sentenze bifide. aprire le teste. al limite, con l’ascia. alcune menti, e spiriti, sono chiusi, altri aperti; i secondi vincono sempre; nessuna diga può reggere in eterno; qualche volta, chi, per motivi diversi, è chiuso nella mente, può non apprezzare, non accettare, un ragionamento d’apertura; alcuni adolescenti non sanno crescere; alcuni lutti non vengono debitamente elaborati; alcuni uomini sono immobili (senza alcuna fierezza, mica dei bernhard: dei gessi), mentre altri vogliono e sanno muovere; da queste considerazioni preliminari, scaturiscono le riflessioni che seguono; noi, qui, abbiamo qualcosa di nuovo da dire; lo diciamo dunque, profittando di questo spunto incidentale (indecentile), chiarendo a tutti, e non a due tangheri, alcuni punti importanti della nostra modalità operativa, delle nostre motivazioni culturali, del costrutto intellettuale di un progetto reale; parliamo per un senso di responsabilità rispetto alla nostra azione, che è pubblica, e rilevante, e certo non puntualizziamo per rappreseglia, e invece perchè portiano, e siamo, il logos.
il raggio sulla diga, come abbiamo già detto, simboleggia la luce, in un luogo da mezzo secolo associato al buio; questa luce non è sfrontata, è anzi assai gentile, come ogni idea deliberata, che voglia sostituirsi ad un’inerzia (non tutti sanno o possono avanzare);
ma a ben guardare, ogni gentilezza è sfrontata (rispetto agli egoismi, che sono dei confinamenti), proprio in quanto de-liberata; allora, in questo caso, luce e gentilezza sarebbero, sconfinatamente, e finalmente, sfrontate;
questa luce è stata dunque, certo che sì, ben determinata a venire, ad esserci, a crescere la propria intensità, ma ciò non è avvenuto attraverso un’imposizione, essa non è stata propinata come una cura, non abbiamo inteso con essa far superare qualche cosa a qualcheduno (in effetti però, un ipovedente può non veder bene la luce, e con ciò immaginarla diversa da come essa sia in realtà, e, dato che la cecità è frustrante, egli può immaginarla cupa, o invadente, paradosso dell’antiicaro, che rifiuta la luce, e viene accecato dal buio);
il singolo lutto (parliamo della tragedia del ’63), è una questione intimamente privata, sulla quale non è evidentemente possibile discutere in modo generale; infatti, non ci siamo mai azzardati a parlare in questi termini;
ma la Tragedia del Vajont non è solamente una cosa privata: è un evento pubblico, un fatto rilevante assai, universale, che travalica la sua posizione specifica nelle geografia e nella storia, e riguarda ogni uomo, riguarda l’umanità intera, come abbiamo già detto; la diga non è affatto un oggetto privato, con un custode (chi potrebbe mai averlo assunto?), bensì, anch’essa, un ente (la rappresentazione di un fatto) pubblico;
far confusione su questo punto non è consentito; farlo significa non essere capaci di cogliere una differenza concettuale elementare, basilare; questo può accadere a chi non sappia pensare, a chi ha paura di qualcosa, a chi è chiuso in qualcosa;
DC non ha voluto portare o rivelare la verità della luce agli abitanti delle aree colpite, mezzo secolo fa, dalla Tragedia del Vajont;
questi abitanti, come singoli uomini, se la vedono da sé, da 50 anni, con quel fatto, che li colpì, e nessuno ha qualcosa da insegnar loro, o è interessato a farlo;
e però, quel fatto non è loro; è anche nostro;
quel che ci interessa, è dire che l’immagine pubblica di quel luogo non deve e non può essere associata sempre e solo alla tragedia;
riflettiamo: per immagine pubblica non intendiamo rappresentazione estetica: quest’immagine corrisponde piuttosto al senso profondo e generale e globale di quel luogo nella sua storia (e oltre ad essa) rispetto a tutti coloro che potranno mai guardarlo, comprenderlo, avvertirlo; e ciò vuol dire il senso, condiviso, di ognuno (al di fuori della singolarità privata e intima del sentire personale, evidentemente, che non può essere condiviso se non lo si voglia, e che, nel caso, non ha quindi senso poi voler difendere pubblicamente);
non esiste alcuna possibilità di proprietà esclusiva rispetto a quel fatto atroce, nessuna pertinenza, nessuna gelosia o tirchieria o accaparramento è possibile, rispetto ad esso; esso è di tutti, in virtù della sua terribilità assoluta ed emblematica, e il sentimento che se ne può avere non va custodito aspramente, non è questa custodia ostile a costituirlo, e a difenderlo (da cosa mai?): una simile pretesa, timososamente predatoria e protettiva, di controllo e possesso e, diciamo, privilegio, farebbe piuttosto di questo stesso fatto universale un elemento rimpicciolito confinato sterile, nella paura di chi ha subito e non sa più ergersi (la scoppola, l’incapacità di scrollarsi e reagire), e quindi un agente di paralisi, un elemento discriminante; gestirlo in modo ultraprotettivo, significa strumentalizzarlo, alienarlo, cercando di inibirne la partecipazione; ma attenzione: nessuno ha questa facoltà; come nessun clan può vantare alcuna primogenitura, né alcun presuntuoso mandato, su queste terre e per questa storia, sui quali nessuno vanta diritto e titolo d’incoronarsi testimone privilegiato, depositario, vate, apostolo, padrone, predone;
quindi questo luogo-nella-storia non può essere inibito da chicchessia ad alcuno; ma inibito poi a chi? cosa temono questi aggressivi pavidi, che gettan la freccia dall’ombra del riparo chouso? inibito all’altro, all’estraneo; a chi non c’era;
ma chi, dunque, non c’era, allora?
c’erano già tutti, come abbiamo detto, compreso chi è venuto dopo, dato che tutti sono colpiti, tutti riguardati, da quel fatto, terribilmente travalicatore;
i fatti grandi, positivi o negativi che siano, sono dell’uomo, non solo di ognuno singolarmente, ma di tutti come complesso; complesso significa civiltà consapevole; chi non lo capisce, è possessivo, egoista, retorico, privo di chiarezza, privo di slanci, strumentalizzatore, privatizzatore, cannibale; chiuso; e va aperto;
chi non c’era non c’è? (questo vorrebbe dire: chi non è nato qui non può capire, sempre con ciò confondendo coscienza privata e coscienza pubblica, e identità con chiusura; state alla larga, voi, stranieri, dice chi non si vuole relazionare, chi vuol mantenere quei privilegi e titoli che si è dati da sé);
ma allora, se così mesta fosse la presenza dell’essere, non esisterebbero il poeta, il pensatore, lo scrittore (che non è mai un tipo che chiude, ma un tipo smisurato che espande); esisterebbero solo i custodi (fisici, nemmeno mentali) di culti statici: il doganiere, l’uomo-diga, il contingentatore tignoso, l’uomo delle (proprie) palizzate, il difensore del pozzo (scuro); e il guardiano del cimitero; tutti i frantumatori di un senso altrimenti plastico e composito e organico ed espansivo della cosa e dello spazio, del suo senso e del superamento della sua forma amorfa atrofizzata verso un’azione radente che porti un impulso generativo e rigenerativo (che si oppone alle tirchierie muffite al fondo della caverna umida, buia);
chi non c’era non c’è? allora nulla potrà venire, mai, questo è chiaro;
quest’assunto è di una brutale pericolosità inaudita; è, anche, una culla: xenofoba, d’intolleranza, inospitalità, inautenticità, vigliaccheria, come ogni istanza ciecamente difensiva (perché è cieca, come si vede, come vedremo);
chi non c’era non c’è? questo non è che uno scempio ed un volgare razzismo (alle volte, chi arriva in un luogo-a-scudo, luogo nel quale taluni elementi di una cultura dispoticamente centripeta han posto il dentro e il fuori come confini drammaticamente solidi e invalicabili, chi vi arriva, appunto, vien dichiarato essere togno; uno-che-vien-da(l)-fuori; dentro a cosa, fuori da cosa? non parliamo qui di diversità culturali, che possono e debbono ben esistere e interagire, ma di un intransigente, sordo, categorico, miope, nauseante, rifiuto a priori; deliverance: chiusi alle volte in caparbi e orgogliosi particolarismi difensivi, recita un noto tomo che stigmatizza alcuni tratti furlani); quindi: chi non c’era non c’è è una tesi inammissibile, oltreché di una banalità sconcertante (occhio ai libri banali): gli unici a non esserci, son quelli che non sanno, non vogliono, essere lì, insieme agli altri, che invece son motivati a venire; quelli schiacciati dal confine (o dal muro), amputati, mutili;
altrimenti, tanto per celiare su un’esempio, un astronauta per esser tale dovrebbe dar prova d’aver compiuto, fisicamente, almeno un’orbita attorno ad una terra;
non potrebbero esistere astrofisici tetraplegici (è paralizzato, non è dove parla), e nemmeno gli astrofisici in generale (non era presente al big bang, gli toccherà perdersi il big crunch); e lo scrittore sarebbe uno scribazzatore di amenità, retoriche e folkloristiche magari, prese dal bosco magari (lì, finalmente, lui c’era!) e dalla roba, e non un indagatore dell’oltreconfine (dove non si è, ma di cui si possono intuire le luci, le ombre);
questo andiamo sostenendo quindi noi, quando diciamo quel che tutti gli adulti che san guardare e leggere hanno avuto modo di capire dall’inizio: che, con questo primo raggio di luce (la fine del confine), non siamo affatto venuti, da un fuori ad un dentro, come spettatori estranei, né come impositori strafottenti, nè come organizzatori di eventi; nel dentro ci siamo già, dato che la nostra azione è, sempre e solo, ricerca di un senso e di un movimento conoscitivo; da ciò, risulta che noi siamo, per scelta, intrinsecamente, endogenamente, costitutivamente, intellettualmente, dichiaratamente, soggetti partecipativi, vivamente interessati, e ben decisi a non lasciar depotenziare queste idee, salde e forti, da chicchessia (mentre quel pover’uomo mette e leva i post; che mestizia);
se dunque non si capisce che le cose, tutte, tanto più le cose di questo tipo vasto -per tornare all’oggetto nostro- sono, simultaneamente ed a scale diverse, private e pubbliche, e non si sanno distinguere questi due piani, vuol dire che non si sa pensare in modo adulto e responsabile;
ogni anno, oltre 100.000 persone vanno alla diga famigerata: a veder che cosa? a veder la tragedia, appunto, e poi, per molti, basta e nient’altro;
se c’è un motivo per cui abbiamo voluto riaprire lo Spazio di Casso, non come l’ennesimo, inutile, perfino pericoloso, secondo noi, luogo di una memoria acritica e non svolta, non processata, ed invece come un luogo nuovo, attivo, ideativo, aggressivo (culturalmente), che sappia produrre altre immagini, che guardi al futuro e sia intraprendente rispetto al passato (la storia non può essere l’alibi di una paralisi; e la paralisi è sempre una colpa, è il sintomo di un’impossibilità di elaborazione), è proprio per opporci, culturalmente, all’inerzia di un turismo automatico, al default acritico della tragedia, alla quale non può esser consentito di fagocitare tutto per sempre;
al fatto che quel fatto, accaduto mezzo secolo fa, è stato talmente grande, incommensurabile, da impedire il sorgere di qualsiasi immagine ulteriore, da fermare tutto, anche le teste di alcuni di coloro che ancora adesso provano fastidio, e si ribellano, e rifiutano a priori la nascita possibile di altre cose (i guardiani, perenni, della diga intesa come eterna lapide; i proiettatori della propria tragedia personale, trasformata in coccarda distintiva, legata al petto col filo involuto dell’intolleranza cieca, nello spazio del mondo, che invece è pubblico e condiviso);
la tragedia non è superata, né superabile; noi non siamo rivangatori; il Vajont non ci interessa, in sé; ci disturba, da sempre, la sua mediaticità, la mediocrità dei modelli d’accaparramento, sfruttamento, spettacolarizzazione, che ha generato; questi modelli non sono tutti estroversi: sono anche introversi; essi non hanno prodotto nulla; soprattutto, non hanno prodotto una distanza critica dall’evento infausto, non hanno permesso mai di dichiarare che l’uomo è vivo, ed in piedi, e cammina, e va;
noi rifiutiamo le chiusure; questo progetto è nato come rifiuto della chiusura; da quasi due anni, un progetto saldo a chiaro, diritto e strategicamente costruito, Dolomiti Contemporanee, riapre luoghi chiusi, morti, sepolti; è un impegno pratico e politico e culturale, il nostro, non una cattedra, ma un’azione; non dichiariamo, facciamo, incarnando le idee nei luoghi (i luoghi in sé stessi non sono niente; le idee disincarnate sono azioni private); se poi uno ci si para davanti e non ha la testa, completiamo l’operazione, decollandolo del tutto, con ciò donandogli un ninin di coerenza pure;
la Tragedia non è, pubblicamente, superata; quest’area va, riteniamo noi (ma qui ci ha chiamati il sindaco, bravo ciano, aperto e coraggioso), bonificata culturalmente; noi lavoriamo dal Nuovo Spazio di Casso per produrre immagini nuove, che non cancelleranno mai nulla, ma vengono, e sono vive, anziché morte;
tutto questo ci pare facile da capire, per chi voglia capire, per chi non sia confuso (noi non siamo confusi);
perché questi luoghi, siamo i primi a dirlo, hanno delle altre cose da mostrare (natura selvaggia, ambiente, specificità, le falesie, i borghi, alcuni dei quali, come Casso, quasi disabitati; e la potenza di un’obiezione umanistica del risollevamento), e invece la cosa principale che ancora c’è (la memoria pubblica della Tragedia) va trasformata (non volerlo fare, a nostro giudizio, nostro in quanto pensatori d’aperture, è da irresponsabili – culturalmente, intellettualmente, moralmente);
tutte queste altre risorse, interessano a Dolomiti Contemporanee, che vuole lavorare e lavora su di esse, attraverso un metodo frontale e amplificante, e non tumularle sotto ad un’incapacità espressiva, mascherata da un dignitoso silenzio che, ribadiamo, è fuori luogo contrapporre, non allo scempio del turismo che cannibalizza lo spettacolo della tragedia, ma ad una libera e fresca e decisa istanza rinnovatrice che proprio da esso prende, attivamente, aggressivamente, operativamente, le distanze;
tutte queste cose buone e stimolanti (per noi, non schiacciati) che questo territorio possiede, o possiederebbe, sono però, spesso, ancora schiacciate dal peso della Tragedia, e dalla sua fruizione univoca, che da 50 anni snerva e offende chi si fa snervare e offendere, che sta sopra a tutto, come la diga, e da questo stesso antico fatto, che è fresco ancora per alcuni, ingolfati e incapaci di procedere, o ben decisi a non farlo, che procedere non è scordare, ma essere capaci, responsabilmente, di essere di nuovo, senza sempre e solo lamentare l’onta e la ferita;
la maturazione non prescinde dall’elaborazione; alcuni, mascheratisi da paladini della realtà naturale e del pensiero lineare, sono responsabili della perpetrazione di questo regime d’inerzia; costoro, più ancora dello schianto originario, sono oramai i veri colpevoli dell’imprigionamento; essi vanno saltati, van superati di slancio, se si ballerà loro intorno, si scioglieranno, come ologrammi, fotomontaggi; sono pericolosi, sono killer: lo fanno perché questa è la loro pensione, la loro tribuna, il loro privilegio;
e dunque, alcuni, tra costoro, ci han rimproverato d’aver detto di voler superare la tragedia, dandoci dei profittatori, degli opportunisti, degli avvoltoi;
anche qui, intendiamoci: non è che stiamo rispondendo a qualcuno in particolare, tantomeno al più basso dei torvi (che però non è un rapace): piuttosto, rispondiamo a quella psicologia annidata, fissativa, traumafossile, che in taluni casi si fa possessiva e proterva, come abbiamo detto; sappiamo bene che non tutti vedono le cose nello stesso modo, e non tutti tendono alla ricerca, come tendiamo noi; per uno, il raggio è un semplice, banale, faro acceso; per un altro, non è un’opera d’arte; questo è lecito; migliaia di persone han detto: bene (più che bello, bene); qualcuno, ha detto: brutto (non male); questo lo accettiamo; quel che non accettiamo, son le accuse di dolo, le accuse, sterili, d’opportunismo; del merito artistico, potremmo ben parlare, un dibattito aperto, da critici d’arte, da persona a persona, sull’arte pubblica, su stefano cagol, su realtà e metafora, eccetera; ma non è di una questione estetica che ci stiamo occupando qui, bensì di una posizione culturale attivante, e di un’inadeguatezza morale passivante e reazionaria; e che cos’è poi mai, come sarebbe inteso, questo concetto di superamento, domandiamo noi allora, a chi ne ha criticato l’uso? mica lo si intende come salto dell’ostacolo, questo andare oltre la diga, o come campagna di smemoratezza, non par chiaro da sè? forse che gli ostacoli si rimuovono? non qui, evidentemente, dove i nodi vanno di certo sciolti (e non tagliati);
è questo, atteggiamento, duplice, che primariamente, ha senso combattere; l’inerzia, inevitabile, fisiologica (ma che non va ammessa come regime eterno e insuperabile: nessuna diga può, né deve, tenere per sempre); la, più grave, azione di permanenza nell’inerzia, aggressivamente difensiva, aggressività-che-chiude, nefasta (mentre quella che apre è positiva, morale);
è quella, l’idea migliore di DC; opporsi alle vuote retoriche celebrative (dell’immagine, del produrre, dell’essere, del lutto), e agire con criteri alternativi: non ce l’ha insegnato nessuno, nessuno che-era-già-lì, e come tale autorizzato a sapere, e ad autorizzare (le idee si autorizzano da sé: sono, appunto in ciò, idee, o micce); l’abbiamo dichiarato noi, sin dall’inizio, autonomamente; e questa modalità operativa è stata molto evidente da subito;
e allora, cosa stiamo contestando, ora? contestiamo quella visione statica, dal cui carattere d’introversione può muovere pericolo;
dunque: non esistono che le idee: nessun c’era, che non c’è; nessun dentro (al bosco?), contro un fuori, dal quale fuori possa venire alcun altro, contro il sogno dell’elfo;
nel sogno dell’elfo, egli stesso sogna la propria testa, e si vede ergersi (ha perso la proporzione, le distanze) – mentre non può;
prendiamo dunque questa voce d’elfo a paradigma d’incapacità reattiva, che si arroga il diritto di divenire giudice morale (di cosa?), senza averne alcun titolo (il titolo sta nelle idee; o forse qualcuno è stato eletto?); se dunque a qualcuno non piace quel che facciamo, questo non dipende dal merito della nostra azione, ma, probabilmente, dalla confusione che abbiamo detto; o magari, capita anche questo, qui saranno entrate pure altre cose e cosette; ad esempio, non è simpatico a tutti, un artista col ciuffo (cagol); che qui, però, ha presentato un’opera pubblica, non ha sgranato un rosari altrui, né si è fatto furbescamente gli affari propri; ma le antipatie personali, se ci sono, anche qui, non possono generare posizioni pubbliche, tanto più quando parliamo di un’opera, e di una sensibilità, che intendono manifestarsi pubblicamente, che si oppongono ai particolarismi ed alle chiusure; aggiungiamo poi questo: a erto e casso, DC è stato accolto bene; tanto bene, che lavoriamo ogni giorno, con sindaci, amministratori, persone che pensano e parlano e scrivono senzientemente, ad armare questa stazione d’azione antiretorica e potente, questo può divenire noi il Nuovo Spazio di Casso, per opporla alla stagnazione dell’assenza di progetti e di idee e di spinte;
il nostro ruolo è quello di progettatori culturali, ed ha una valenza pubblica, è di interesse pubblico, come si suol dire; avere idee, e riuscire a portarle avanti, nel quadro di una politica culturale, vuol dire agire pubblicamente, assumendosi dei rischi, delle responsabilità; le strategie culturali vengono pensate da chi vuole muovere le inerzie dei luoghi; non da chi vuole starsene in silenzio, a nulla fare; ma se poi invece uno voglia stare, legittimamente, in silenzio, ci chiediamo: perché poi allora, coerentemente, non ci sta fino in fondo?
chi si oppone a che sorgano idee nuove, e immagini nuove, è un irresponsabile, non dal punto di vista estetico, ma morale, rispetto ad un luogo che, molto semplicemente, non è destinato a rimanere, a esser ricordato, nella psicologia collettiva, come un luogo esclusivo di morte; nessuno l’ha detto, questo; e, se qualcuno l’ha detto, noi lo neghiamo, lo contestiamo; che si arroga il diritto di dichiarare una moralità pubblica, un codice etico per le azioni da condursi in questo luogo-nella-storia, non sta difendendo la propria intimità, che nessuno tocca; la sta buttando via, anzi; la sta pubblicizzando; chi fa questo, non sa vedere la differenza tra la dimensione privata, e quella pubblica; chi fa questo, vuole eternare l’ecatombe;
la banalità della mente confinata è quindi pericolosa, va contrastata;
sin dall’inizio, noi diciamo che si deve andare oltre la diga intesa come lapide, non per insegnare, ma perché è evidentissimo che questa lapide ancora grava qui, non su tutti, ma su alcuni: sulle teste, sugli spiriti;
un luogo speciale, crediamo, dove fare COSE ALTRE, altre dalla morte, che per 50 anni non s’è parlato e visto altro; la morte che c’è, ovunque, ma che si sconta vivendo (ungaretti), ognun come può, taluni parlando al bar, e contentandosi (al bar uno ti ascolta sempre);
quindi, siamo venuti qui perché abbiamo idee, e vogliamo rinnovare, e la morte perenne è un’aggressività, un’avversione, che va contrastata (crediamo di avere un’idea migliore di chi non ne ha nessuna, e crediamo che i luoghi debbano vivere – o vogliamo proporre una teoria della moltiplicazione naturale del cimitero e diffusione ineluttabile ed eterna del sigillo funebre – il cimitero totale?); se poi qualcuno dovesse dirci che noi non rispettiamo la memoria, i sentimenti, eccetera, gli diremmo, evidentemente, che si sbaglia del tutto, (o ha dei timori, e magari ci legge come degli invasori): non rispettiamo le subordinazioni, e la morte; qui c’è blocco, stallo; accade spesso, in montagna; la montagna grava; qui oltre a gravare, essa è gravata; ecco perché ci interessa operare qui; perché è difficile;
quindi serve; le chiusure (qui si tratta di una chiusura: è evidente che noi non ci siamo posti come autorità morale sul Vajont; volesse qualcuno mai imputarcelo, atteggiandosi così esso ad autorità morale, in virtù, magari, di un preteso diritto autoctono, ma come, davvero costui penserebbe, realmente, che la tragedia è cosa sua!), sono sempre infantili:
se, in ogni luogo in cui c’è stata una tragedia, non si potesse più far nulla, come qualcuno crede, la tragedia avrebbe nell’assenza di stimoli rinnovativi un grande alleato d’inerzia; a erto, e casso, alcuni, spontanei, hanno accolto molto bene il progetto, da subito; un sindaco che sa pensare e agire ci ha affidato l’incarico di riaprire il luogo chiuso, luogo difficile, rispetto al quale pochi altri fin’ora, evidentemente, avenano avuto un’idea buona (e la forze di realizzarla, che noi, che ci mettiamo costantemente in gioco, abbiamo); a noi, quest’incarico difficilile e stimolante, perché noi abbiamo dimostrato di saper riaprire dei luoghi chiusi, difficili appunto; molte persone franche sono con noi, semplicemente per un’idea di apertura, e superamento – non, ripetiamo, della dimensione privata di lutto e memoria;
quello che diciamo noi, che abbiamo un progetto culturale pubblico, da due anni visto e apprezzato in lungo e in largo per Italia, è che l’arte ha un potere di fatto (e le idee, e il saper scrivere, per chi ce l’ha); l’arte e le idee e il saper fare formano una piattaforma antiretorica; la funzione dell’arte, intesa come creatività intelligente, ideatività plastica, pensiero formalizzato, è quella di andare oltre, e dare impulso; noi ci crediamo sul serio, e l’abbiamo fatto davvero; i 300 articoli usciti su DC dal 2011 ad oggi, lo testimoniano; tra questi, ci sono gli interventi di giornalisti, semiologi, curatori, intellettuali interessati all’analisi delle modalità rinnovative della cultura, ecc.; l’arte non insegna una morale ai singoli, e non sfrutta alcunché; noi ci crediamo sul serio; e andiamo avanti, anzichenò:
gianluca d’incà levis, marzo, luglio, settembre 2013